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5 gennaio 2014 7 05 /01 /gennaio /2014 06:11

 

 

 

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http://www.poetipoesia.info/racconti/dentro-si-muore/

 

   

  • Tra sogno e realtà, olio su tela, 80x60 - 2009
  • Il freddo dentro,

  

 

 

DENTRO SI MUORE

 

di Yvonne Pelizzari

 

 

Ho lasciato la casa rossa piangendo, l’ultima sera ho cenato a casa di Laura perché oramai l’appartamento era vuoto, mi era rimasta soltanto la chiave.
Sono entrata nella casa nuova piangendo e piangendo l’ho occupata, ma giorno dopo giorno ho cercato di renderla accogliente, ho piantato fiori sul balcone e un alberello di ulivo per ammirare una nuvola verde anche durante l’inverno.
Ho fatto tinteggiare le pareti del soggiorno di un bel color albicocca luminoso, non volevo intorno a me la sterilità del bianco e ho appeso quadri evocanti viaggi, ho messo morbidi cuscini sul divano per adagiare le mie fatiche e ho esposto su mobili e mensole cornici d’argento con le foto più significative per rivivere emozioni vissute.
Dalle ampie finestre il sole filtra incontrastato, ma non so come mai, anziché limitarsi a diffondere calore, fa risaltare il pulviscolo che inesorabilmente si posa ovunque condannandomi in una estenuante battaglia nel tentativo di eliminarlo. Ritorna sempre.
Ci sono alcune sere in cui il cielo si colora di rosso, un rosso così intenso che pare un grande incendio, ma chissà perché il tramonto da qui non è mai perfetto, c’è sempre qualche dissonanza che m’ impedisce di apprezzarne appieno la spettacolarità.
Attorno al palazzo vi sono spazi verdi sempre ben curati, ma da essi non traspare vivacità: sono giardini ornamentali e si possono ammirare, ma non calpestare e non sono mai invasi da bambini festosi che giocano. E’ vietato giocare in giardino.
L’ingresso principale architettonicamente elegante è costituito da un ampio atrio dal tetto semicircolare sorretto da quattro colonne e sulla parete rivolta all’esterno sono collocate le cassette per la posta. Le colonne sono rivestite da vigorosi tralci di floridi gelsomini che a maggio esplodono in una straordinaria fioritura, ma chissà per quale mistero, non emanano profumo.
Qui, occasionalmente ci si può incontrare con altri abitanti nel condominio, ma è stato consigliato di non soffermarsi a conversare: evitare capannelli rumorosi.
Attorno l’atrio ci sono piante di rose, i giardinieri le potano, le concimano, le disinfestano e l’efflorescenza è abbondante, ma i fiori hanno colori tenui, spenti.
Nulla hanno in comune con quelle belle rose rosso sangue, vellutate , emblema di passione.
Nelle aiuole sono stati piantumati degli alberi, vi è pure un giuggiolo, ma anch’essi sembrano privi di linfa vitale: crescono lenti, i tronchi stentano a irrobustirsi e quando il vento li accarezza si piegano e sembra si debbano spezzare da un momento all’altro.
Gelsomini che non emanano profumo, rose sbiadite , piante senza linfa: ma a ben pensarci perché dovrebbero essere diversi?
In fondo si tratta di piante ornamentali e quindi devono soltanto apparire e inoltre taluni, in preda alla frenesia della vita quotidiana oramai priva del buon tempo, neppure le nota.
E perché gli alberi dovrebbero avere rami rigogliosi a formare ombrelli lussureggianti se nessuno può godere della loro ombra?
A ben guardarci questo complesso residenziale moderno non rappresenta altro che un complesso residenziale moderno e impersonale come molti altri qui in città.
E nei dintorni non c’è mare, non c’è lago e neppure un rigagnolo d’acqua che possa evocare un torrente o un ruscello e le montagne sono pura illusione.
Adiacente il complesso c’è un parco attraversato da un lungo viale di pioppi svettanti intervallati da panchine sulle quali ogni tanto intravedo qualcuno seduto. La mia impressione, giusta o sbagliata che sia, mi ha persuasa che su quelle panchine si soffermano coloro che non hanno altro da fare se non osservare il trascorrere del tempo forse, senza accorgersi di quanto sia prezioso lui, il tempo.
In fondo al parco c’è anche un campo di pallacanestro, ma poche volte vedo ragazzi giocare.
I ragazzi d’oggi forse non apprezzano molto la luce del giorno e il calore del sole e preferiscono chiudersi dentro le loro stanze occupandosi di cellulari, videogiochi, social network e diavolerie varie di cui anche i genitori più evoluti non riescono ad avere il controllo.
La mia casa in città: indubbiamente è una bella casa moderna, tecnologicamente a norma, comoda e funzionale, si arriva nel box in auto, si parcheggia, si sale sull’ascensore che porta direttamente al pianerottolo dell’ appartamento. Raramente incontro qualcuno e se piove non serve l’ombrello.
“Complesso residenziale con rifiniture signorili” questo riportava il cartello esposto in cantiere in fase di costruzione: le rifiniture signorili prevedevano che ogni appartamento fosse dotato di porta blindata e quelli ubicati al primo piano avessero cancelletti di sicurezza alle finestre.
Ciò per permettere che ognuno potesse chiudersi tranquillamente “dentro”.
Alcuni “dentro” sessanta metri quadri, altri “dentro” spazi più ampi, ma tutti rigorosamente “dentro”.
Qui la buona educazione vuole che ognuno debba badare ai fatti propri mentre “dentro” ognuno è libero di vivere i propri affanni, le proprie tribolazioni, angosce e solitudini.
Fuori, oltre la porta blindata, possono trapelare solo alcuni eventi come una nascita annunciata con l’esposizione di vistosi nastri azzurri o rosa, un matrimonio poiché la sposa abitualmente si esibisce e infine i funerali. Del resto i morti non si possono tenere “dentro” e se ne dà notizia con paramenti a lutto sul cancello dell’entrata principale.
Quasi sempre anche le condoglianze stanno “fuori”, scritte su un solitario quadernetto abbandonato su un tavolino all’ingresso dell’abitazione del defunto.
Questa usanza la trovo alquanto inconsistente poiché io sono cresciuta in un paese di campagna e mi hanno insegnato che la partecipazione al lutto deve prevedere una visita fatta di persona ai famigliari dell’estinto. Ma forse il dolore della città è diverso dal dolore del paese e perciò l’uno si esprime “dentro” e l’altro “fuori”.
In città quasi tutto rimane dentro, dentro le quattro mura e stasera qui nel mio “dentro”, nella mia casa senza storia, non rido, ma penso.
Inspiegabilmente affiorano ricordi, confidenze , racconti seppelliti e mi abbandono a un tripudio di sensazioni senza nome. Penso a donne incontrate, conosciute, ascoltate, ma soprattutto penso a donne morte dentro, dentro le loro case, anche se fuori, per le strade del mondo stanno camminando o forse correndo con le labbra atteggiate al sorriso.
Lei, l’ho ritrovata dopo anni che l’avevo persa di vista. Anni di silenzio interrotto da una sua richiesta telefonica d’ aiuto di cui avevo dubitato l’autenticità e poi ancora silenzio assoluto. Nonostante ci fosse stato un tempo in cui avevamo condiviso esperienze importanti di adolescenza, di gioventù, successivamente la vita ci aveva allontanate fino a farci divenire quasi estranee. Lei si era sposata e si era trasferita lontano e io mi ero convinta che non sarebbe mai più ritornata alla casa natale. Ma mi sbagliavo, improvvisamente facendosi precedere da una breve telefonata era tornata e io me l’ero trovata davanti o meglio, le ero andata incontro. Un abbraccio dentro un silenzio quasi solenne e una prorompente emozione: ci eravamo ritrovate. I legami fra anime affini sono inscindibili, più forti di qualsiasi altro legame.
La ricordavo bene quell’amica d’infanzia: briosa, ingegnosa, bella che senza impegnarsi attirava naturalmente gli sguardi dei ragazzi e dotata di intelligenza sagace tanto che nonostante i genitori non l’avevano avviata agli studi, autonomamente aveva imparato un paio di lingue straniere.
Ora, fra le mia braccia uno scricciolo di donna col capo coperto da una specie di bandana e addosso una camicia in flanella a maniche lunghe dal taglio maschile, non adatta al caldo estivo e troppo ampia per il suo esile fisico .
Ma l’abbigliamento non sarebbe stato nulla se i suoi occhi avessero sorriso, invece dal volto traspariva una sofferenza così greve che non lasciava spazio a eventuali domande.
Una piccola donna gravata da un fardello visibilmente troppo pesante e forse senza più lacrime per piangere.
Un donna forse in cerca di silenzio, di solitudine o vicinanze mute o forse alla ricerca di una forza perduta o forse soltanto sopita dentro la sua anima. Chissà!
Erano trascorsi alcuni giorni dal suo ritorno, ci si incontrava, conversazioni brevi, io la osservavo e soffocavo ogni domanda nonostante incalzasse il desiderio di conoscere la causa di quella evidente sofferenza. Ero certa che lei sentiva la mia vicinanza perché le anime affini che si ritrovano, si sfiorano e si comprendono anche senza parlare.
Finché inaspettatamente un pomeriggio seduta sul balcone, con parole forti e fiumi di lacrime il dolore aveva preso forma, aveva avuto un nome chiaro, preciso, definitivo.
E i segni sui suoi polsi lo avevano reso indelebile: quei segni che nascondeva sotto le maniche della pesante camicia dal taglio mschile.
E io lì basita, incredula a guardare quei braccialetti del dolore, a rievocare due giovani innamorati che percorrevano abbracciati la strada limitrofa la casa della mia storia, a ricordare la potenza di quell’amore che la indusse ad abbandonare tutto per volare lontano, nella terra di lui.
Quel pomeriggio di confidenza è oramai lontano, ma vive le cicatrici su quelle braccia sottili e il cuore mi fa male, nell’impotenza mi monta una sterile rabbia al pensiero che tutto è successo dentro, dentro una casa, la casa che sempre, ovunque dovrebbe essere rifugio, protezione e sicurezza.
Altre scene si susseguono sullo schermo immaginario come fosse il secondo tempo del medesimo film con protagonisti diversi: un ufficio chiassoso con giovani donne, quasi tutte impegnate a vivere la stagione dell’amore, fra le quali c’ero io e c’era lei.
Si rideva assai, la forza e la leggiadria della giovinezza trovavano in ogni pretesto occasione di divertimento. Si parlava di amori possibili, impossibili, di fidanzati, di mariti.
Lei, giovane donna come noi, era già moglie, già mamma, già tradita, già oltraggiata.
Si era innamorata giovanissima, era rimasta incinta e in quegli anni una gravidanza indesiderata richiedeva quasi obbligatoriamente un matrimonio riparatore e lei si era sposata. Ora aveva due figli, un aborto forse non del tutto spontaneo e raccontava che lui da sempre era molto geloso, troppo.
Pretendeva di sapere tutto di lei e delle persone che frequentava nell’ambiente di lavoro e ogni qualvolta era impossibilitata a rispondere al telefono, lui diveniva sospettoso, a casa la interrogava e rilasciava illazioni come se negli uffici fra una pratica e una pausa caffè, ci si potesse scatenare in orge di sesso sfrenato. Esigeva molto, sempre, quasi ossessivamente e anche le sere in cui lei era stanca, la loro intimità non doveva subire interruzioni.
Noi ironizzavamo, scherzavamo. Lei non sempre rideva, finché un giorno arrivò in ufficio piangendo.
La notte in cui i figli erano in vacanza e lei sarebbe dovuta rimanere sola col marito, lui aveva avuto l’idea di farle una sorpresa e si era presentato dentro la loro casa in compagnia di un’altra donna da ospitare nel loro stesso letto. Per una notte, un letto a tre . Lei si era rifiutata e aveva pianto, lui non aveva desistito, lei aveva urlato, ma nessuno l’aveva sentita o se qualcuno aveva udito aveva badato ai fatti propri.
La violenza non è solo quella comprovata dai lividi, ne esiste un’altra subdola, ancora peggiore che sfregia l’anima e che si consuma dentro le case, le proprie case, spesso nella completa indifferenza di vicini o conoscenti perché ognuno sta rinchiuso nel proprio “ dentro”.
Paradossalmente sono proprio le mura domestiche, quelle mura per le quali spesso siamo disposti a sacrifici indicibili pur di possedere, che nascondono, autoalimentano vizi e difetti spregevoli.
Forse la salvezza sta nell’ uscire fuori, nel non rimanere chiusi dentro e forse in molti casi è preferibile pensare anche ai fatti altrui, a fare capannelli .
E’ indispensabile riscoprire il valore della solidarietà.

 

Yvonne Pelizzari

 

 
 
 
 
Aug 24, 2009 - Uploaded by Merkury86
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Presentazione

  • : RIABILITAZIONE POST MORTEM DI PADRE GINO BURRESI
  • : Riabilitazione post mortem di Padre Gino Burresi Firma la Petizione https://petizionepubblica.it/pview.aspx?pi=IT85976 Giò 04/02/2011 14:27 "Sono dentro, donna o uomo che vive li nel seno di questa chiesa. Da me amata, desiderata e capita... Sono dentro. Mi manca aria, Aspetto l'alba, Vedo tramonto. La chiesa dei cardinali madri per gioielli, matrigne per l'amore. Ho inciampato e la chiesa non mi sta raccogliendo. Solitudine a me dona, a lei che avevo chiesto Maternità. E l'anima mia, Povera, Riconosce lo sbaglio di aver scelto il dentro e, Vorrei uscire ma dentro dovrò stare, per la madre che non accetta, Il bene del vero che ho scoperto per l'anima mia. Chiesa, Antica e poco nuova, Barca in alto mare, Getta le reti Su chi ti chiede maternità. Madre o matrigna, per me oggi barca in alto mare che teme solo di Affondare! Matrigna." Commento n°1 inviato da Giò il 2/04/2011 alle 14h27sul post: http://nelsegnodizarri.over-blog.org/article-la-chiesa-di-oggi-ci-e-madre-o-matrigna-67251291
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