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“Sala d’aspetto” di Francesca Tocchet
La stazione di Trefiumi ha ben quattro binari, tre banchine, sei panchine di pietra, tre orologi e quattro lampioni (tutti funzionanti). Rumore di passi, valigie, voci di ogni età, treni in arrivo e partenza. Biglietti, riviste, ombrelli bagnati, cappotti, fumo di sigarette.
L’unica sala d’aspetto (prima e seconda classe) è immersa nel silenzio. Sul muro uno specchio con cornice; al centro un tavolo di rovere, alto e ruvido; nell’angolo sinistro un cestino, semivuoto; poggiate a tre lati della stanza tre lunghe panche di legno (una per lato); due termosifoni, entrambi regolati al minimo;un orologio fermo, da due anni, sulle 10.23.
Vicino alla porta c’è un signore, in un cappotto verde, con gli occhiali sul naso e il naso quasi schiacciato contro il vetro. Guarda i binari con le mani intrecciate dietro la schiena. Sembra che sia stato portato lì insieme al tavolo, allo specchio e all’orologio. Come l’orologio sta fermo, nella stessa posizione, senza stancarsi. L’uomo a cui dà le spalle non può vedere (né immaginare) il suo sorriso.
L’uomo col maglione giallo e il viso stanco sembra aspettare molto più di un treno. Tenta di sedere compostamente sulla panca, ma le sue spalle sono curve e il legno è duro e lucido. Accanto a sé tiene, ben piegato, il giornale di oggi. Guarda oltre le porte in vetro della sala d’aspetto. La stazione è piena di studenti e fa freddo. Le persone si muovono lentamente. Il tempo scorre piano, ogni secondo moltiplicato. L’uomo china lo sguardo sulla fede che porta all’anulare sinistro. Unico cerchio perfetto, oramai perduto, della sua vita. L’uomo percorre con lo sguardo tutto il perimetro della stanza – che lo fa sentire a disagio, come un bambino – e con il dito accarezza la superficie liscia della fede. Una porta si apre, un rumore di tacchi violenta il silenzio della sala. L’uomo alza lo sguardo, si gratta un punto qualunque sul collo e raccatta il giornale, per fingere di leggerlo.
La donna che è entrata posa le sue valigie nell’angolo destro, vicino al termosifone. Guarda l’uomo col maglione giallo e quello sulla porta, che le volta le spalle. Guarda lo specchio. Guarda se stessa dentro lo specchio in un tailleur melanzana e si siede. Pelle bianca, capelli scuri, occhi verdi, mani curate e polsi fini. Delicata e fragile, come la Madonna di porcellana poggiata sul comò della nonna e rivenduta a un mercatino dell’usato. Getta lo sguardo lontano, accavalla le gambe e si sistema la gonna. Donna vuota, come la sedia per l’ospite atteso inutilmente. Lei sospira, prende i grafici dalla cartellina in pelle, li guarda e pensa
sono gli altri che mi hanno amata ingiustamente
Poi alza lo sguardo, nello specchio. Non una piega sul suo viso di porcellana.
Nei suoi occhi passa la figura dell’uomo col maglione giallo che attraversa la stanza con il giornale in mano. Non ha valigie. Mentre lui apre la porta per uscire, lei risistema i documenti nella cartellina, passa una mano tra i capelli e prende le sue valigie. Uscendo dalla sala d’aspetto mormora un buonasera di cortesia al signore che sta davanti alla porta. Se avesse alzato il viso per guardarlo si sarebbe chiesta perché sorrideva.
Si sente il fischio del treno. Tutti guardano verso il fondo dei binari. L’attesa è finita.
Il signore con il cappotto verde apre la porta, esce tra la gente, alza il braccio e saluta la persona che stava aspettando. Un ragazzo, sceso dal primo vagone, lo vede, sorride e gli corre incontro.
Tra poco padre e figlio si riabbracceranno.